Voci della memoria01/03/2021

Ginette Kolinka, la vergogna di essere nudi - Di Raffaella Calandra

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"Io stessa lo racconto, lo vedo. E penso che non sia possibile essere sopravvissuti a cose simili. Vedo e sento. Ma voi, voi vedete?"
In tutta la vita del dopo, Ginette Kolinka ha visto e sentito in modo diverso. Diverso, da prima. Prima della guerra, prima dei nazisti, prima di Birkenau e prima della perdita di quello che era.
Ultima di sei sorelle, nasce nell'anno dei Giochi Olimpici di Parigi nel 1925, in una modesta famiglia ebrea, non praticante, i Cherkasky . Il padre, reduce della Grande Guerra, ha un laboratorio di impermeabili; la madre- originaria della Romania- è casalinga. E lei, insieme alle sorelle e poi al piccolo Gilbert, che arriverà 7 anni dopo, respira comunque un po' dell'aria di quegli anni "struggenti della festa mobile", per dirla con Hemingway.
A lungo, anche quando la guerra, insieme alle leggi per gli ebrei, cambia tutto e loro scappano ad Avignone, pensa comunque che nulla di grave possa mai succedere. Ginette lo continua a credere anche dopo la cattura, a diciannove anni, il 13 marzo 1944, insieme al padre e al fratellino. Le sorelle e la madre, no. Ma è quando si ritrova completamente nuda, in una bolgia di corpi a Birkenau, con un tatuaggio sul braccio, che comprende davvero che quello non è solo un campo di lavoro. Fino a maggio del 45 cambia campi, lavora in fabbrica, lotta per sopravvivere, fino alla liberazione.
I ricordi di quello che ha vissuto restano però a lungo sepolti, nei suoi silenzi, quando torna a Parigi. Proprio nella vecchia casa, dove ritrova la madre e le sorelle. Restano dietro un muro per anni, insieme al rimorso di aver spinto l'anziano padre e il fratellino, all'arrivo a Birkenau, verso dei camion che – scoprirà poi- conducevano direttamente alle camere a gas. "Da 75 anni, convivo e lavoro su questo senso di colpa", confida in un'intervista ad Alessandra Tedesco, a partire dal suo libro "Ritorno a Birkenau" (Ponte alle Grazie).
Il bisogno di ricordare, di rivivere e di condividere quello che ha vissuto inizia per caso e dopo una telefonata della Fondazione Schindler. Da allora, Ginette Kolinka non ha mai smesso di accompagnare i giovani a vedere e sentire quello che è stato. Direttamente tra quelle baracche del campo di Birkenau, dove lei, alla loro età, è stata schiava, affamata e violata nella sua intimità.

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